Mercato del lavoro, tra flessibilità e welfare

Welfare: cosa chiedono i lavoratori in questo momento e cosa stanno offrendo le aziende.

La recente Salary Guide di Hays fa luce su alcuni aspetti centrali del mondo del lavoro. Prima di tutto il welfareaziendale, strumento di fidelizzazione dei dipendenti e “merce di scambio” per conquistare nuovi talenti.

Nel mercato attuale, per il 50% si tratta di piani di welfare già strutturati, mentre stentano a prendere piede programmi più innovativi come il wellbeing, focalizzato sul benessere psico-fisico.

Tra le richieste dei lavoratori spiccano le agevolazioni nelle aree “medicina e salute” (con il 70% delle preferenze), seguite da “previdenza integrativa” (44%), “cultura e tempo libero” (41%) e “servizi per la famiglia” (31%).

Un altro argomento caldo è quello della flessibilità, con una diffusione capillare: basti sapere che l’85% delle aziende intervistate prevede la possibilità di avere orari flessibili e il 55% ha concesso o smart working.

Anche la digitalizzazione è un argomento analizzato dal report. È l’84% a considerare le capacità tecnologiche imprescindibili per il lavoro. In particolare: comprensione e utilizzo dei social media per il 49%, analisi e gestione dei Big Data per il 48%, competenze in ambito digital marketing per il 45%.

Per quanto riguarda le previsioni del settore, le novità introdotte dal Decreto Dignità non sembrano aver avuto un grosso impatto sul welfare aziendale, e solo il 18% dichiara che aumenterà il livello d’investimenti nelle Risorse Umane nel corso del 2019.

Consulenti del lavoro: le soft skill più richieste dalle aziende

Sono tre le soft skill maggiormente richieste dalle aziende italiane per entrare nel mondo del lavoro: essere persistenti, riconoscere i problemi e avere la capacità di lavorare in gruppo, competenze che incidono anche sulla retribuzione. E’ quanto emerge dall’analisi “I fabbisogni professionali delle imprese. L’analisi della domanda di professioni del futuro: hard e soft skill” a cura dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro che verrà presentata nel corso del Festival. Inoltre, i giovani in cerca di occupazione potranno testare competenze e attitudini con il progetto “Circuito Lavoro, il percorso della conoscenza sulla strada dell’occupazione”, che si terrà nell’Aula dell’Orientamento al Lavoro.

giovani, soprattutto oggi, nell’epoca della quarta rivoluzione industriale, devono conoscere le abilità connesse alla personalità e agli atteggiamenti individuali da acquisire per aumentare le probabilità di trovare impiego. Le soft skill dei candidati sono molto importanti per le aziende. Quali sono le più richieste? Lo rivela l’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro nella ricerca “I fabbisogni professionali delle imprese. L’analisi della domanda di professioni del futuro: hard e soft skill” che sarà presentata nel corso del Festival del Lavoro 2019, dal 20 al 22 giugno al Mi.Co. di Milano.

L’Osservatorio Statistico, sulla base di dati amministrativi, ha analizzato le caratteristiche richieste dalle imprese nel momento in cui decidono di assumere e la loro incidenza sulla retribuzione.

Le prime tre competenze trasversali richieste dalle aziende italiane per entrare più velocemente nel mondo del lavoro sono le seguenti: essere persistenti, riconoscere i problemi e avere la capacità di lavorare in gruppo. L’aumento in busta paga è del 25,1% relativamente al requisito della persistenza, dell’8,4% del primo stipendio per l’attitudine a riconoscere problemi e al 6,3% per la capacità di lavorare in gruppo.

Tra le altre competenze ritenute inoltre molto importanti: il saper prendere decisioni e risolvere i problemi (26,2%), fornire servizi adeguati ai clienti (23,7%), saper comunicare (22,4%) ed essere innovativi (21,1%). Così come la conoscenza di una lingua straniera (5,1%), generalmente l’inglese.

Ad aiutare i giovani a misurare le proprie capacità, testare le competenze e ricevere consigli per scegliere la professione giusta punta il progetto “Circuito Lavoro, il percorso della conoscenza sulla strada dell’occupazione”, che si terrà nell’Aula dell’Orientamento al Lavoro.

L’iniziativa, evidenzia il comunicato stampa del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del lavoro e della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro del 1° giugno 2019, nata in collaborazione con il Salone dello Studente – Campus Orienta, ospiterà studenti, laureandi, laureati e più in generale giovani in cerca di occupazione.

Il rapporto redatto dall’Osservatorio si focalizza anche sulla classifica delle professioni “vincenti”, che dal 2012 al 2017 hanno registrato la maggiore crescita (+1,2 milioni) in valori assoluti del numero degli occupati, e delle prime professioni “perdenti”, spiazzate dall’evoluzione tecnologica o da fenomeni di crisi, che registrano, nello stesso periodo, la maggiore flessione del numero dei lavoratori.

La crescita complessiva di 1,2 milioni di occupati – specifica il rapporto – nelle 29 professioni vincenti riguarda per una quota del 44% (529 mila) quelle altamente qualificate, del 37% (452 mila) quelle mediamente qualificate e solo del 19% (226 mila) quelle non qualificate.

“Il mondo del lavoro italiano è profondamente mutato negli ultimi anni. In questo contesto, i giovani con creatività, pragmatismo e capacità di lavorare in squadra possiedono un qualcosa in più che, se inserito all’interno di un curriculum ‘accattivante’, può fare la differenza offrendo loro maggiori opportunità di lavoro” spiega Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro che, insieme al Consiglio Nazionale dell’Ordine, organizza da dieci anni il Festival del Lavoro. “I giovani studenti che parteciperanno al Festival avranno un’occasione straordinaria per scoprire le proprie soft skill ed essere aiutati nella ricerca di un lavoro o di un percorso formativo adeguato da professionisti esperti del mondo del lavoro”.

Perchè dalle crisi nascono le migliori opportunità di crescita

Cosa ci ha insegnato la crisi del 2008? Certamente che chi guida una azienda è chiamato ad anticipare una vasta gamma di opzioni. La resilienza rispetto a una serie di scenari è più importante di una previsione e di un piano di recovery specifico

Nel 2008 il gruppo finanziario americano American Express reagì rapidamente alla crisi che di lì a poco avrebbe travolto Lehman Brothers e altre banche e assicurazioni. Lo fece con un aggressivo taglio dei costi, avvenuto principalmente disinvestendo da alcune attività non-core. Lo stesso anno, Amex indirizzò la propria strategia di sviluppo verso una profonda e radicale trasformazione digitale.

I risultati sono stati impressionanti: il titolo da allora è cresciuto di oltre il 1000%. Questo è uno degli esempi virtuosi di società che hanno saputo navigare con successo momenti di crisi. Secondo uno studio di Boston Consulting Group su un campione di 5.000 imprese americane, nella fase recessiva degli ultimi cinque cicli economici il 14% delle imprese è riuscito ad aumentare il fatturato di oltre il 10% e l’utile del 7% a fronte del 44% delle imprese che invece hanno diminuito fatturato e utile (rispettivamente del 28% e del 14%). I numeri evidenziano che per alcuni è stato possibile resistere e alle crisi e, addirittura, trarne vantaggio.

Come hanno fatto? In primo luogo investendo e non resistendo passivamente, ovvero non limitandosi a reagire ai colpi della crisi. A puro titolo esemplificativo, se la crisi evidenzia la caduta del mercato in Spagna un conto è chiudere le attività in Spagna e basta, diverso è chiudere in Spagna e contemporaneamente aprire altrove. L’esempio non è casuale perché il ridisegno e il potenziamento dell’export è stata una delle aree di maggior impatto positivo sull’uscita dalla crisi (anche dalle ultime). Sempre guardando all’esperienza del 2008, il panico portò due terzi delle imprese americane a ridurre i costi, licenziando, tagliando e chiudendo intere linee di business senza però, anche nel 2009, avere riequilibrato la struttura aziendale assumendo, potenziando e aprendo in altri settori di mercato o geografici. Una strategia in molti casi miope.

Al contrario, un terzo delle imprese americane – a partire dal 2008 – ha attivato procedure “attive” ovvero ha aperto nuove linee di business, approcciato nuovi mercati, aggredito commercialmente concorrenti storici. E non si sono limitate a questo: hanno anche alzato la soglia di attenzione verso operazioni di M&A approfittando dei prezzi più bassi, hanno gestito crediti e debiti in modo più aggressivo per proteggere il flusso di cassa. Più di tutto hanno rinnovato il management e ridisegnato l’organizzazione secondo una prospettiva digitale che per definizione è profondamente innovativa.

Di primaria rilevanza anche il fattore tempo. Sottovalutare l’urgenza è fatale, mantenere una prospettiva di lungo periodo è fondamentale. Sempre nel triennio 2007-2009, fu grave l’errore di molte imprese americane che, di nuovo secondo l’indagine di BCG, si concentrarono su azioni di breve termine anziché iniziative di lungo termine. Il già citato panico di quella fase, per esempio, fece dimenticare che licenziare su due piedi la linea di management significava punire forse i colpevoli ma lasciava l’organizzazione senza guida nella fase più critica. Inoltre abbiamo osservato che nelle situazioni di rallentamento economico ripetere le azioni passate può risultare inefficace: ogni crisi ha origini e conseguenze diverse sia sul piano economico che sociale e richiede una analisi storica. Basti pensare ai cambiamenti che la rivoluzione digitale ha oggi messo in atto costruendo scenari imprevedibili solo 10 anni fa. Allo stesso modo non era prevedibile l’attuale debolezza e volatilità del contesto politico, in Europa in primis.

3 consigli per convincere i migliori talenti a lavorare per te

Il social recruiting amplia il ruolo di chi si occupa di selezione. Ecco come le risorse umane possono sfruttare il digitale per offrire un lavoro ai migliori candidati

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3 consigli per convincere i migliori talenti a lavorare per te

Il social recruiting amplia il ruolo di chi si occupa di selezione. Ecco come le risorse umane possono sfruttare il digitale per offrire un lavoro ai migliori candidati

La trasformazione digitale incide sui processi di assunzione in due modi: offre nuovi strumenti a sostegno della selezione (come le diverse piattaforme social su cui ci si può presentare e sistemi di intelligenza artificiale che filtrano le candidature) e modifica le competenze necessarienell’organizzazione, sia in termini di capacità tecniche sia in termini di esperienza e di attitudine mentale.


Secondo l’indagine annuale di Jobvite, che sviluppa software per il reclutamento, sul social recruiting, il 93% dei responsabili delle risorse umane utilizza i social per la selezione dei candidati più idonei.


Nel rapporto Linkedin recruiter sentiment Italia 2019 si legge che, secondo i responsabili italiani delle risorse umane, le competenze che mancano maggiormente ai professionisti italiani sono proprio le competenze in ambito tecnologico e di coding (36%), le capacità di problem solving (31%), la creatività (30%), l’abilità di gestire i tempi di lavoro in maniera corretta (28%), le competenze nell’ambito del web design (28%), la capacità di collaborazione (27%) e il senso di leadership (26%). Sembra quindi necessario che la selezione attraverso l’utile sostegno dei social sia accompagnato da filtri umani che sappiano leggere tra le righe dei curricula.

Se questa esplosione nell’utilizzo dei social potrebbe far erroneamente pensare a un ridimensionamento del ruolo del recruiter, questi strumenti possono invece espandere e arricchire la funzione del selezionatore, dicono Atta Tarki e Ken Kanara, rispettivamente amministratore delegato e presidente dalla società di consulenza Ex-Consultants Agency.

I responsabili del personale hanno bisogno di essere formati alle nuove competenze e sostenuti nella gestione della complessità legata agli strumenti a loro disposizione. Il nuovo ruolo porterà benefici sia in termini di qualità delle assunzioni sia di vantaggi a lungo termine fino a oggi poco esplorati. Ecco come (abbiamo sintetizzato in tre macro aree i cinque punti di Tarki e Kanara).

1. Imparare a fare le domande giuste

I consulenti mettono come primo punto quello di “aiutare i responsabili delle assunzioni a definire la strategia di reclutamento”, ma andando al nocciolo della questione potremmo dire che a monte di ogni strategia c’è la capacità di scegliere con chiarezza le domande da fare, a se stessi in quanto organizzazione o funzione, per evitare di indirizzarsi ai candidati sbagliati o di trasmettere e ricevere ambiguità nelle risposte.

Fondamentale è anche imparare a porre le giuste domande per evitare pregiudizi e per riuscire a contestualizzare la figura del candidato nella possibile situazione di lavoro. Laszlo Bock, ex senior vice president people operations presso Google, nel suo libro Regole di lavoro!, descrive come migliorare le interviste con domande situazionali, volte appunto a evitare i pregiudizi.

La prima domanda che occorre farsi – spiega a Wired Simona Panseri, direttrice comunicazione e affari istituzionali di Google – è quale sarà il team allargato con cui il candidato avrà a che fare, su quale rete di competenze e processi produttivi impatterà il suo lavoro, sia in termini tecnici sia in termini di relazioni. La formazione del gruppo di selezione deve comprendere, oltre al diretto responsabile dell’assunzione, tutte le figure che potenzialmente vedranno condizionati, magari in futuro, i propri processi e i propri risultati. La negoziazione fra le diverse esigenze è un altro nodo che può sciogliersi ponendosi da subito le giuste domande all’interno del team”.

2. Fare azioni di marketing per acquisire i talenti

Come ormai non ci si può aspettare di aumentare il fatturato sperando che i clienti ti vengano a cercare sulla tua pagina web o social, così non ci si può aspettare che le migliori risorse sul mercato cerchino proprio te. Possono cercare delle caratteristiche e dei valori che appartengono anche all’azienda, e se si lavora bene con l’employer branding si può ottenere di farli gravitare anche intorno alle proprie offerte di lavoro.

Chi, però, in un mercato globale pensa che la strategia giusta sia aspettare quelli “che hanno consapevolezza dell’importanza del brand” o “che hanno voglia di lavorare”, rischia di lasciare alla concorrenza le risorse umane più qualificate o avere presto un’ emorraggia di dipendenti in cerca di aziende meno egocentriche. Il secondo e il terzo punto descritti dai consulenti parlano di “Fare in modo che i migliori talenti si candidino” e “Selezionare il meglio del meglio”.

Antonio Andreotti è direttore risorse umane, personale, organizzazione e sistemi informativi di Iren, azienda che sta affrontando diverse trasformazioni legate al digitale, fra cui un progetto pilota di smart working. Racconta Andreotti: “Gli abilitatori tecnologici necessari a una trasformazione digitale aprono una delicata ma necessaria questione di cambiamento culturale, che non è possibile se non c’è un cambio di mentalità. Nel recruiting cresce la consapevolezza che quando si incontra un candidato occorre vendergli l’azienda, non chiedere solo quello che lui/lei può offrire a noi”.

E aggiunge: “Iren sta intraprendendo una fase in cui lo smart working e il work force management toccheranno duemila unità sulle settemila impiegate in azienda. Un progetto di smart working complesso, se da una parte consente flessibilità alla persona nei tempi e nel luogo di lavoro, dall’altra prevede una capacità di coinvolgimento e di autodisciplina superiore, una leadership diffusa in cui ognuno, invece di sentirsi controllato, apprezzi la possibilità di muoversi più liberamente, ma sempre entro regole e confini che continuano a metterlo in relazione con i colleghi e le necessarie procedure organizzative. Il lavoro entra negli spazi di vita della persona, che vanno quindi conosciuti e rispettati per costruire quell’impresa a rete che si allarga a collaboratori esterni e startup”.

3. Costruire relazioni autentiche

Se inserire il nome di battesimo nella stringa di un messaggio omologato, non funziona più, cercare un contatto significativo è vincente. Le email personalizzate sono circa il 75% più efficaci di quelle generiche e i messaggi su Linkedin (se non sembrano spam) sono sei volte più efficaci di quelle via email.

 migliori talenti sanno riconoscere un interesse sincero da uno simulato. Sanno anche smascherare presto qualità organizzative inesistenti. È inutile promettere a un candidato un’ambiente di lavoro aperto e dinamico, se non lo si può dimostrare neanche a breve, ad esempio prolungando il processo di selezione all’infinito. “Accompagnare i candidati alla linea del traguardo” e “Autovalutarsi” sono i due ultimi consigli di Tarki e Kanara.

Il recruiter può aiutare a impostare la selezione in modo da promettere solo quello che si può mantenere, oppure in seguito può aiutare a valutare e migliorare l’esperienza di chi è stato assunto (che sarà ambasciatore per i prossimi candidati) e a ricalibrare il modello di selezione. Esistono, per esempio, prodotti che aiutano a comprendere e sviluppare il potenziale manageriale

La forza del nostro questionario attitudinale – spiega Samantha Marzullo, responsabile risorse umane della società di consulenza Open Source Management – non sono le singole domande, che a volte possono sembrare anche particolari e fuori dal contesto lavorativo, ma l’insieme delle stesse che ci permettono di comprendere il potenziale manageriale di un candidato e individuare il percorso di crescita a lui più adatto, così da portarlo al successo in azienda. Non esiste un modo corretto di rispondere alle domande del questionario. Anche una risposta all’apparenza sbagliata potrebbe infatti avvantaggiarti su una particolare caratteristica”.

Il ruolo del recruiter, quindi, diventa quello di affiancare i selezionatori aziendali in una lettura dei dati che tenga conto di ruoli e copioni,immaginando una sceneggiatura organizzativa in cui ogni presa di decisione (risposta a domande) attiva uno scenario in cui si intrecciano situazioni, persone e obiettivi.

Open space: come cambia la produttività

Produttività, ecco come cambia negli open space a seconda dell’età di chi lavora: numeri, trend e soluzioni pratiche contro le distrazioni.

Una recente ricerca Future Workplace commissionata da Poly indaga il rapporto tra spazi di lavoro e giovani leve (baby boomers, Generazione X, Millennials e Generazione Z), dalla quale si evince lavorare in open spacefavorisce la collaborazione e piace a tutti, ma non tutte le generazioni sanno gestire le distrazioni, inevitabili in uno spazio del genere.


Non sorprende scoprire che il 99% ammette di subire distrazioni nel proprio spazio di lavoro, soprattutto da parte di colleghi (76%). Per “sopravvivere” si reagisce in modo diverso, con soluzioni che variano a seconda dell’età.

Il 35% degli appartenenti alla Generazione Z utilizza le cuffie, mentre solo il 16% dei baby boomer fa lo stesso. Circa quattro su dieci tra Generazione Z e Millennials si spostano in spazi alternativi per lavorare, mentre più della metà dei baby boomer lavorano solo nello spazio  principale incapaci di trovare soluzione alle distrazioni.

Il 52% della Generazione Z, tuttavia, trova che la produttività aumenti negli ambienti rumorosi o condivisi con altre persone, il 60% dei baby boomer produce di più con il silenzio. Una differenza enorme, che dimostra la capacità dei giovani di adattarsi e gestire più fonti senza stressarsi.

In generale però quasi tre persone su quattro lavorerebbero di più in ufficio e sarebbero più produttivi se i datori di lavoro si impegnassero maggiormente per ridurre le distrazioni.

La collaborazione tra IT, risorse umane e servizi di gestione delle infrastrutture deve per questo prendere in mano la situazione, fornendo soluzioni tecnologiche capaci di favorire lo scambio senza incidere sulla produttività.